Intervista - Cal Trio al Vapore - Marghera - 2006
Domenico Caliri è appena sceso dal "ponte" del Vapore, il piccolo club di Marghera dove ha suonato con il Cal Trio, progetto che lo coinvolge assieme ad Antonio Borghini al contrabbasso e Cristiano Calcagnile alla batteria. L'occasione era di quelle ghiotte: la presentazione del secondo album del Cal Trio, Do ut do (Caligola 2064) uscito pochi mesi fa. Due set tirati, densi e coinvolgenti hanno fornito un quadro esauriente del disco e messo in evidenza le capacità compositive del chitarrista siciliano: sul palco abbiamo visto un musicista incline alla sperimentazione sul campo, a lasciarsi trasportare dal flusso della musica con la curiosità e la meraviglia di chi visita posti nuovi, senza tuttavia perdere la bussola del discorso. L'improvvisazione è per così dire "controllata" dai principi compositivi del Nostro, di modo che la musica non è mai banale e scontata ma riesce a mantenere un grado di semplicità che la rende godibile e non "cervellotica". L'interplay dei musicisti è formidabile (i tre sono insieme da sette anni) e se Caliri incanta con gli intarsi della sua chitarra, elettrificata, manipolata, distorta, altrettanto stimolanti e suggestivi sono i ritmi, le armonie, i timbri e i colori suggeriti da Borghini (al contrabbasso e al basso elettrico) e Calcagnile (con il suo bazar di oggetti e percussioni).
Cortese e disponibile, Domenico si concede alle nostre domande trasmettendo tutto il suo amore per la musica e l'entusiasmo di chi è orgoglioso del proprio lavoro e ci tiene a farlo conoscere alla gente.
a.S. Allora Domenico, com'è andata sul palco?
D.C. Bene! Noi tre ci siamo divertiti molto e credo anche chi ci ha ascoltato. Suonare due set così mi ha fatto tornare indietro ai tempi in cui suonavo con gli Electic Five: in tour, a Parigi per esempio, al Duc des Lombard... andavamo a dormire tardissimo ma c'era tanta energia, tanta voglia di suonare....
a.S. Eh già, gli Electric Five di Enrico Rava... otto anni (1993-2001 n.d.r.) con loro non sono pochi: cosa ti ha lasciato quell'esperienza? Tra l'altro le date coincidono con la tua permanenza nel collettivo Bassesfere che tu hai contribuito a fondare: coincidenza o c'è qualche connessione tra le due cose?
D.C. Pura coincidenza, o fatale (se vuoi). All'inizio del '93 ho conosciuto Enrico Rava, il quale, forse per la prima volta, era stato invitato dalla scuola di S.Lazzaro di Bologna (la città dove vivo) a tenere un workshop; puoi immaginare la folla di musicisti che riempì l'auditorium per le audizioni; io venni scelto insieme ad altri del gruppo Bassesfere; in seguito suonammo dal vivo in due club della zona, e alla fine dell'anno nacquero gli Electric Five. Abbiamo suonato e fatto dischi con un discreto ritmo per almeno sei anni. E' stato l'unico gruppo di jazz col quale posso dire di aver fatto dei tour europei lunghi anche tre settimane praticamente senza day-off, che per un gruppo italiano era praticamente un record. E' stata un'esperienza molto positiva, che mi ha dato modo di approfondire in piena libertà il mio personale approccio musicale contribuendo, insieme agli altri, a rendere la musica di Enrico molto particolare, sebbene figlia (italiana) di Miles. Negli ultimi due anni l'attività del gruppo si è notevolmente ridotta, anche perché purtroppo Enrico ha avuto un periodo di salute instabile, dal quale fortunatamente si è ripreso. In seguito però ci siamo accorti che il nostro leader era stanco anche dal punto di vista musicale nei confronti del progetto Electric Five; non riusciva a palesarci questa sua nuova transizione, così insieme decidemmo di mollare, mettendo il punto ad un lungo e bellissimo viaggio; credo sia stato il più longevo tra i gruppi di Rava..
Anche Bassesfere nacque nel '93 come legittima conseguenza di una serie di "suonate" e discussioni su come modificare l'assetto musicale della città, che a noi sembrava alquanto statico e schiavo di un revivalismo a volte fastidioso.
Volevamo dire la nostra, pur rendendoci conto che la reazione della gente non poteva essere prevedibile. Noi però credevamo profondamente nelle nostre idee e, pur con umiltà e senza fare troppo chiasso, cominciammo prima con una rassegna, poi continuammo a suonare musica improvvisata nei locali bolognesi in cui si suonava solitamente hard-bop o blues. Il successo fu incredibile; la gente chiedeva il bis battendo i bicchieri sui tavoli; eravamo molto contenti per tutto questo.
Pur tra mille difficoltà e tante sfide siamo riusciti a dare a Bologna una nuova veste, almeno una in più. Se adesso il pubblico bolognese non si stupisce più di tanto davanti ad una performance di improvvisazione radicale, si deve anche a Bassesfere.
Nel 2001 ho lasciato il collettivo perché crescendo, alcuni hanno assunto nuovi atteggiamenti e prediletto nuove direzioni che non mi interessavano più; è una cosa normale. Continuo comunque a collaborare con qualcuno di loro; in fondo siamo satelliti che gravitano attorno allo stesso pianeta musicale.
a.S. A Bologna hai trovato la tua casa ma tu sei nato a Messina, vero? Com'era l'ambiente musicale quando hai iniziato a suonare?
D.C. Si. Sono nato e cresciuto a Messina. L'ambiente jazzistico era più o meno assente. La tendenza musicale preminente era rivolta alla new-wave ed all'heavy metal, molto di moda negli anni '80.. Per il jazz c'era solo un gruppo molto scarno di persone, credo non più di cinque o sei..
a.S. E adesso come vedi la scena siciliana dopo tutti questi anni? E' cambiato qualcosa?
D.C. La scena musicale in Sicilia è cresciuta in modo esponenziale. Sono nate parecchie scuole, associazioni, nuovi clubs e, soprattutto a Catania e Palermo, i musicisti bravi sono almeno quadruplicati. La mia città vive ancora immersa in un limbo perenne; tuttavia anche da Messina sono venuti fuori parecchi talenti che, nella maggior parte dei casi, hanno fatto le valigie e si sono trasferiti un po' dappertutto..
a.S. A Bologna sei arrivato nel '90, se non sbaglio: com'è stato l'impatto?
D.C. Abbastanza traumatico, perché non conoscevo nessuno. Ero stato lì nei due anni precedenti sporadicamente per dare gli esami al Dams (che poi abbandonai). Salivo la sera prima con un treno terribile, e con un altro altrettanto terribile ritornavo il giorno seguente. Non avevo modo quindi di conoscere i musicisti bolognesi; notavo soltanto che il livello era parecchio più alto che da noi a Messina. I primi quattro mesi li passai chiuso in casa a studiare; poi cominciò tutto..
a.S. Lì hai cominciato ad avere a che fare con una miriade di realtà e tuttora sei molto dentro la scena bolognese: ce ne vuoi parlare un po'?
D.C. All'inizio del '91 entrai in contatto con una scuola di jazz di S.Lazzaro; giacché la mia stanza era proprio lì a due passi, mi sembrò un primo segnale positivo; in poco tempo ho conosciuto Tomaso Lama, Paolo Fresu, Attilio Zanchi e Tino Tracanna, con i quali facevo musica d'insieme; pur non potendomi permettere di pagare tutte le lezioni. In particolare incontrai il sassofonista Guglielmo Pagnozzi ed il batterista Francesco Cusa; loro mi introdussero ad un gruppo di musicisti molto interessanti. Cominciammo a vederci per delle session private. Si era già formato il primo nucleo che di lì a poco avrebbe dato vita al collettivo Bassesfere.
Nello stesso periodo ho messo su un doppio quintetto chiamato Specchio Ensemble con quasi tutti i membri del collettivo. Ci siamo esibiti in alcuni festivals esteri e più volte al Festival Internazionale Angelica (che si tiene ogni anno a bologna, nel mese di maggio) diretto da Massimo Simonini, il quale ha rivestito un ruolo fondamentale nella realizzazione dei due dischi del gruppo.
Nel '97-'98 ho preso parte all'Orchestra del Titanic di Stefano Bollani (nel quale ho sostituito per un anno e mezzo Riccardo Onori), un ottimo quintetto nel quale ho conosciuto Antonello Salis (che era ospite fisso). Poi mi piace ricordare il duo con Ares Tavolazzi e quello con Roberto Cecchetto, il trio Wergeld con Giovanni Maier e Zeno de Rossi ed infine il mio progetto di guitar-solo Callunaire (del quale è in uscita il primo disco Live frames) che porto avanti da cinque anni. Oltre al Cal Trio, naturalmente.
a.S. Tanti progetti, tutti molto eterogenei: quali sono le caratteristiche che deve avere un gruppo per attrarti e convincerti a suonarci insieme? E quali sono gli elementi che "tengono insieme" i tuoi progetti? Quali sono insomma le "sfide" che cerchi?
D.C. Un musicista per colpirmi deve avere sì una matrice riconoscibile, sia essa jazzistica o accademica, ma soprattutto deve possedere un approccio personale, così che io possa pensare alla mia musica anche in funzione di quell'approccio. Nei miei gruppi mi preoccupo principalmente di far suonare ai musicisti non solo i miei spartiti, ma anche quello che meglio sanno suonare.
Tendenzialmente preferisco pensare più ai musicisti che suoneranno la mia musica piuttosto che agli strumenti in generale, a meno che non si tratti di una commissione specifica.
a.S. Parliamo ora del Cal Trio. Innanzitutto come hai conosciuto Cristiano e Antonio? Mi sembra che abbiate raggiunto un'intesa davvero profonda, non suonate come tre musicisti ma come un "organismo", pur mantenendo ciascuno le sue caratteristiche. Condividete anche gli stessi interessi artistici e i gusti musicali?
D.C. Ho conosciuto Cristiano tramite un amico comune (trombettista) che voleva farci suonare assieme in un quartetto che in realtà durò poco, ma fu un ottimo pretesto per metterci in contatto: era il '95. Da allora abbiamo condiviso diversi progetti, tante serate ed interessanti discussioni. Antonio invece l'ho visto la prima volta ad una prova di un mio quartetto (Agù) in cui suonava anche Gianluca Petrella. Gianluca in quel periodo era ospite da Antonio; così abbiamo cominciato a frequentarci e di lì a poco (nel '99) è nato il Cal trio. Tra i piccoli organici che ho diretto il Cal è il mio preferito, non soltanto dal punto di vista musicale. Non abbiamo mai litigato e abbiamo sempre preferito parlare con franchezza dei problemi che si presentavano. I nostri interessi artistici non sono tutto sommato così dissimili; credo che anche questo contribuisca a dare maggiore unità alla musica che facciamo. Mi sento molto legato a loro due e sono anche fiero di avere "creato" una ritmica che si è consolidata anche attraverso numerosi altri progetti.
a.S. Ci puoi chiarire il concetto che sta alla base del disco, quel "Do ut do"? Nelle note di copertina affermi di sentirti "come un pilota che percorre velocemente una strada sconosciuta (...) non puoi [ non vuoi] sapere come andrà a finire...". Davvero ti lasci trasportare dal flusso della musica che stai suonando oppure mantieni sempre un certo controllo sulla forma e sulla direzione che questa prende?
D.C. Un po' entrambe le cose; succede la stessa cosa quando suoni uno standard o un brano originale conosciuto. E' come andare in discesa senza freni; conosci già la strada, ma devi prevedere le traiettorie con molto anticipo per non schiantarti. Questa è la sensazione che io provo mentre improvviso su una struttura. Improvvisare dal nulla invece è come decidere come sarà la strada; creare dal nulla le traiettorie; in un certo senso è più difficile, perché ci vuole un attimo perché tutto diventi poco interessante. E' una sfida diversa, ma ugualmente emozionante. Nel Cal Trio convivono le due cose. "Do ut do" invece indica come, al contrario della tendenza comune della nostra società, sempre più incentrata sul "do ut des", la nostra musica sia chiara, trasparente e diretta, e non contenga troppi equivoci o compromessi, men che meno strategie "ruffiane" per attirare maggiore attenzione. O piace o non piace.
a.S. Il bambino sulla copertina del disco sei tu???
D.C. No, è un mio nipotino fotografato da me quando aveva cinque anni. Adesso è un gigante di quindici anni!
a.S Nel disco, in brani come "Valse de la balorda" e "Stoccato" in cui Antonio suona con l'archetto, si avverte quasi un'urgenza di comporre per gli archi, sbaglio? Da dove ti viene questa passione per gli archi?
D.C. Ho avuto un primo input in seguito ad una commissione per un brano per orchestra sinfonica. Me lo chiese Massimo Simonini, direttore artistico di Angelica. Il brano fu eseguito nel 2000, e fu molto apprezzato anche dagli altri compositori presenti in cartellone, tra cui Guus Jansen e John Zorn.
Scrivere per archi è un desiderio che ho da molto tempo, ma non ho mai avuto occasione di conoscere improvvisatori che usassero questi strumenti. Adesso è il momento buono: ho convocato due bravissimi violinisti, Erica Scherl e Dimitri Sillato; poi ci sarà Paolo Botti alla viola (che più che violista è un musicista completo) e l'ottimo Francesco Guerri al violoncello; in più ci sarà il Cal trio; diventerà quindi un settetto, o un quintetto d'archi più chitarra e batteria. Non vedo l'ora di iniziare!
a.S. Mi pare che Tu svolga anche un'attività didattica. Quali sono i consigli che dai ai tuoi allievi? Su quali aspetti dello strumento richiami maggiormente la loro attenzione?
D.C. Insegno da quasi vent'anni. In questo lungo periodo mi sono fatto un'idea sempre più chiara di cosa costituisca una priorità nel campo didattico. Con i miei allievi lavoro soprattutto sulla sensibilizzazione dell'orecchio musicale. Saper riconoscere il rapporto tra melodia e armonia è (secondo me) la cosa più importante in assoluto. Molti insegnano le scale e gli arpeggi e solo in un secondo momento si ragiona su quali note possano caratterizzare una data scala, un modo ecc. ecc... Io insegno a fare il percorso contrario.
La questione della tecnica, intesa nel senso "meccanico" è un percorso parallelo, che curo molto, ma che non interferisce con il lavoro sull'improvvisazione. Il concetto è perfino banale: se sei un improvvisatore devi conoscere le note che stai suonando, altrimenti equivale ad un oratore che, pur parlando con disinvoltura, non sappia cosa sta dicendo.
a.S. E tu che modelli hai avuto? Quali sono le tue influenze stilistiche?
D.C. Potrei dirti che ho ascoltato molto Ralph Towner, Joe Pass, Jim Hall, Allan Holdsworth (le cose che faceva... in quegli anni era assolutamente dirompente!) ma non mi sono mai messo a studiarli: è più un filtrare la loro musica attraverso l'ascolto, può darsi che nel mio stile affiori qua e là qualche influenza, ma sono convinto che ognuno debba andare per la propria strada, lavorare su sé stesso e cercare la propria "voce". Questo è quello che cerco di fare io.
Anche Django Reinhardt è una grande "scoperta" che ho fatto tardi, un vero "pianista" della chitarra: è stato unico, un grandissimo precursore, e chiunque tenti di imitarlo gli fa un torto, lo "impoverisce". Secondo me creatività vuol dire aggiungere qualcosa di nuovo a ciò che è stato già detto e per farlo non è necessaria una tecnica sopraffina. Certo, conoscere le basi, le regole per suonare è importante, ma il virtuosismo tecnico non è strettamente collegato alla creatività.
a.S. E cosa consigli a chi volesse intraprendere la carriera di musicista nell'ambito del jazz e della musica improvvisata?
D.C. La questione è molto delicata; in Italia la nostra carriera è considerata poco e niente. Mi raccontava Enrico (Rava, n.d.r.) che, negli anni '60 fare il jazzista era giudicata una pura follia, era come dire: di mestiere faccio il cow-boy.. Ebbene, dopo quarant'anni devo dire che, almeno da noi, la cosa non è cambiata così tanto.
Quindi il consiglio che darei ad un aspirante jazzista o improvvisatore è: segui questa strada solo se la senti come una necessità profonda e quasi inspiegabile, ma soprattutto, se veramente ti piace! Il secondo consiglio: se ti rendi conto che, pur amando questa musica, non ottieni risultati visibili, lascia perdere, ti metteresti nei guai! Se invece i progressi ci sono e se (soprattutto) l'orecchio e il senso del beat funzionano, allora benvenuto nel nostro magico mondo: ti aspetta una vita comunque piena di guai, ma anche ricca di emozioni ineguagliabili.
a.S. Senza fare discorsi troppo generalisti, è tuttavia chiaro che tra Grandi Fratelli, fiction varie, musica pop commerciale e spesso scadente, stiamo andando verso una massificazione e un impoverimento culturale preoccupante. Qui in Italia poi si investe sempre meno sulla cultura e chi ne risente di più sono quelli come te che tentano strade nuove e certo non facili e accomodanti. Tu cosa ne pensi? E' un processo irreversibile o si può fare qualcosa per contrastarlo?
D.C. La televisione italiana (sia essa quella di Stato che Mediaset) sta lentamente logorando tutto e tutti; sta impoverendo la fantasia, falsificando e manipolando l'informazione, frenando la nostra creatività, oltre a rincoglionire i bambini con messaggi deleteri volti a "consumare", quindi ad acquistare prodotti che servono ad alimentare mostri industriali. Questa è la premessa da ricordare; per diretta conseguenza la gente diventa sempre meno curiosa e disponibile ad investire il proprio tempo andando a teatro, al cinema o ad un concerto. Parallelamente i politici sono sempre meno sensibili a valorizzare l'enorme potenziale artistico di cui l'Italia gode e che mezzo mondo ci invidia..mi fermo qua: che dire? Il quadro è abbastanza disastroso, ma è proprio per questo che chiunque operi nel mondo dello spettacolo (quello vero) non deve pensare neanche per un attimo di mollare, facendosi inghiottire dai "mostri" ai quali facevi cenno.
Un giorno ci sarà un nuovo modo di fare perfino la televisione, probabilmente quando i televisori cederanno il posto alla tv on-line e la gente finalmente ci capirà qualcosa; soprattutto potrà non illudersi che esser bravi a fare dello spettacolo non è esattamente fare una risatina da idiota davanti ad una telecamera, con qualche cazzata di dubbia grammatica. Almeno, io la penso così!
a.S. E noi siamo perfettamente d'accordo con te! Grazie e in bocca al lupo!